AREA IN COSTRUZIONE
Aids Epidemiologia
della malattia
"Picchia
duro, picchia presto" è stato sino ad oggi il motto della terapia
farmacologica all’Aids. Ora con l’ottava conferenza sui farmaci retrovirali,
in programma a Chicago, verranno stilate nuove linee guida per il trattamento
della malattia. Le ragioni? Innanzitutto la necessità di trovare nuovi
trattamenti che permettano di evitare le controindicazioni pesanti e lo sviluppo
di insensibilità alle cure, poi la scarsità dei medicinali in relazione
soprattutto alla diffusione della malattia nelle zone più povere del mondo,
l’Africa in particolare, dove non ci si può permettere costosi trattamenti
come quelli a base di farmaci retrovirali.
Stop ai farmaci forti da subito
FERMARE LA MALATTIA
Il
problema dell'individuazione del momento ideale per iniziare la terapia
antiretrovirale è fondato sulla necessità di individuare, per ogni singolo
paziente, il giusto equilibrio tra il trattare "troppo presto" (con il
rischio di "bruciare" le opzioni terapeutiche, oltre ad introdurre una
potenziale riduzione nella qualità della vita) e il trattare "troppo
tardi" (quando il sistema immunitario abbia già subito danni notevoli e la
risposta è minore).
Un obiettivo delle nuove linee guida è quello di posticipare la terapia
antiretrovirale nei pazienti asintomatici, in modo da ridurre gli effetti
collaterali. Si è così innalzata la carica virale plasmatica, cioè la quantità
di virus presente nel sangue, alla quale iniziare il trattamento.
Così facendo non si influenza in alcun modo né la mortalità né il tempo di
sviluppo della malattia, mentre si eliminano pesanti controindicazioni come
l’aumento del colesterolo e il progressivo indebolimento delle ossa; inoltre
la somministrazione prolungata rende l’organismo meno sensibile alle cure. Un
discorso valido comunque solo per i pazienti asintomatici mentre per gli altri
la strategia terapeutica resterebbe invariata.
I nuovi farmaci
Le nuove linee guida includono anche
indicazioni su alcuni nuovi farmaci studiati per fermare lo sviluppo
dell’AIDS. I farmaci fino ad oggi utilizzati possono essere fatti rientrare in
tre categorie che possono essere anche associate tra loro: inibitori della
proteasi e inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici e non. Si tratta di
farmaci in grado di inibire la replicazione del virus una volta che
l’infezione è già avvenuta. Una nuova classe di farmaci sono i cosiddetti
"inibitori d’ingresso" (entry inhibitors) che bloccano l’HIV
ancora prima che si insedi a livello cellulare. Una prospettiva importante per i
pazienti intolleranti alla terapia tradizionale. Altre novità dalla ricerca
riguardano un nuovo inibitore della proteasi, di imminente realizzazione, e i
risultati ottenuti con diverse combinazioni di farmaci. Un’ultima possibilità
da non sottovalutare riguarda la terapia antibiotica classica, per esempio con
il comune trimetoprim-sulfametazolo, che può impedire ai malati di Hiv di
sviluppare alcune infezioni. La notizia apre nuove possibilità per i milioni di
sieropositivi africani che non hanno le risorse economiche necessarie a
fronteggiare terapie più costose.
Africa a rischio
L’AIDS si sta diffondendo a un ritmo
allarmante in tutto il mondo, ma in Africa siamo alla vera e propria emergenza:
dei 33,6 milioni di malati di AIDS mondiali, 23,3 vivono nell’Africa
Sub-sahariana, il 70% degli infetti totale. Un problema aggravato dall’alto
numero di donne malate che ha superato del 5-6% quello degli uomini, un dato
preoccupante perché le donne incinte trasmettono facilmente il virus al feto.
L’Africa è così destinata a diventare una terra di orfani e anziani con
un’aspettativa di vita che potrebbe scendere a breve attorno ai trent’anni.
Diventa così fondamentale trovare nuove strategie farmacologiche. Nei paesi più
ricchi infatti i pazienti, come sottolineato, sono curati con un cocktail di
medicine retrovirali che costano, in relazione alle esigenze del paziente
stesso, circa 15000 dollari l’anno ossia 30 milioni di lire. Una cifra
spropositata per l’economia africana. Ecco perché le case farmaceutiche hanno
annunciato donazioni per aiutare i paesi africani a combattere contro il virus e
Bill Gates, presidente di Microsoft, ha destinato cento milioni di dollari,
oltre duecento miliardi di lire, alla lotta contro l’AIDS in Bostwana, dove un
adulto su tre è sieropositivo! Ed ecco perché il giudice della Corte Suprema
africana Edwin Cameron, come riportato da CNN durante la conferenza di Durban,
ha condannato "i prezzi ingiusti e immorali delle medicine e il sistema di
concessioni internazionali". Lo stesso Cameron ha esortato le case
farmaceutiche a ridurre i prezzi in maniera consistente, "immediatamente e
senza ulteriori ritardi", un appello echeggiato da molti altri
rappresentanti alla conferenza.
Terapie
non convenzionali:
tentar non nuoce?
La ricerca nasce da ELECTHIV 1, i cui
risultati sono stati presentati alla Commissione Europea nell’agosto del 1998,
da cui era emerso che il 43% delle persone con HIV in Europa dichiarava di avere
avuto l’opportunità, o esprimevano l’intenzione, di utilizzare terapie
naturali. Electhiv 2 è uno studio osservazionale basato sulla descrizione di un
campione di utilizzatori di terapie non convenzionali (NATC), messo a confronto
con una popolazione di controllo, che non è mai ricorso alle NATC, ed è stato
condotto in 7 paesi dell’Unione Europea: Belgio, Francia, Germania, Grecia,
Italia, Spagna e Gran Bretagna.
Questi i risultati più significativi
Chi utilizza terapie non convenzionali
Le donne, tra le quali l’AIDS è in
costante aumento, rappresentano la percentuale maggiore delle persone portatrici
di infezione da HIV che usano terapie naturali oggi. Il 66,9% infatti dichiara
di usare terapie naturali mentre, tra gli uomini intervistati, solo il 55,8%
dichiara di assumerle. Gli utilizzatori di NATC sono persone con livello di
scolarizzazione medio-alto con una differenza statisticamente significativa
rispetto ai non utilizzatori. Inoltre si tratta di persone che vivono per lo più
da sole e in città. Dal punto di vista della malattia i fruitori delle NATC
sono pazienti per lo più asintomatici, anche con infezione cronica di lunga
durata, spesso trattati con terapia antiretrovirale e con ottimo recupero
immunologico e discreto controllo viremico
Come e perché vengono utilizzate
L’approccio terapeutico naturale più
usato attualmente è il supplemento nutrizionale (84,8%), che comprende terapie
come fitoterapia, integrazione di vitamine, minerali ed altre sostanze
supplementari alla dieta, diete bilanciate. Il 53,2% del campione usa approcci
psico-fisici (Reiki, Yoga, massaggi tradizionali ed occidentali) mentre il 24,5%
usa l’omeopatia ed il 32,8% le medicine tradizionali.
Chi usa queste tecniche come complementari, le ha iniziate per proteggersi dagli
effetti collaterali della HAART e dal desiderio di controllare l’infezione con
terapie ritenute spesso non dannose, gli utilizzatori di NATC infatti denunciano
più spesso di aver sofferto e di soffrire di effetti collaterali, soprattutto
sintomi intestinali, e dichiarano di aver sospeso e/o cambiato i farmaci della
terapia più frequentemente rispetto al campione di controllo. L’utilizzo
delle NATC tende nei periodi più recenti a precedere l’uso della terapia
antiretrovirale, forse anche nel tentativo di ritardarne l’inizio.
Le principali aspettative
Le aspettative non sono cambiate
rispetto al passato. In chi le assume in maniera complementare prevale la
sensazione di protezione, e una parte di tale popolazione ritiene di non poter
usare la terapia antiretrovirale senza l’integrazione delle NATC. Mentre chi
le usa in modo esclusivo pensa che tali terapie possono essere utili come
controllo della malattia e delle infezioni opportunistiche, nell’ambito più
globale di una particolare scelta di vita e di percezione dell’organismo e
della natura. Un altro dato, peraltro piuttosto inquietante, è sintetizzato
nella frase "tanto non fanno male", che accomuna le due categorie ed
esprime il diffuso approccio alle discipline naturali, senza alcun
approfondimento di possibili rischi.
La percezione del rischio
Dalla ricerca trapela una scarsa
conoscenza dei rischi di interazione, infatti del 72,3% che dichiara di avere
accesso alle informazioni, solo il 21,8% ritiene che siano scarse. Dato
confermato dal fatto che la maggioranza del campione di utilizzatori di NATC si
fa seguire da persone, più o meno esperte, non medici, tra questi il 6,3% si
automedica ed autoprescrive tecniche non convenzionali. Solo il 27,4% dice di
farsi seguire da medici specialisti in terapie non convenzionali ed il 17,7% dal
medico di famiglia. Ci si affida quindi per lo più a figure differenti dai
medici con verosimile scarsa conoscenza dei rischi di interazione tra NATC e
farmaci antireterovirali, cosa che porta con sé un rischio significativo per la
maggior parte degli utenti.
In ultima analisi
Dalla fine del 1998, anno del
congresso mondiale di Ginevra, la sindrome da HIV è considerata un’infezione
cronica, il cui management è, però, affidato a terapie troppo tossiche per
poter essere assunte come salvavita long life. Accanto a tale trasformazione
dell’epidemia, si assiste all’importante crescita del fenomeno dell’uso di
terapie e tecniche naturali. Dalla ricerca è emerso chiaramente che la medicina
naturale può aiutare le persone con HIV, e nel futuro anche con altre patologie
croniche, a convivere con la malattia. D’altro canto sono già stati
segnalati, dalla letteratura internazionale, gravi interazioni tra
antiretrovirali e farmaci naturali, e la scarsa conoscenza di entrambe le
medicine, naturale e convenzionale, potrebbe esporre fasce di popolazione,
particolarmente vulnerabili, a pericoli anche gravi. Ecco perché Electhiv 2 ha
sottolineato la necessità che protocolli di ricerca vengano avviati per far
luce sia sui rischi sia sulle interazioni che le terapie alternative possono
esercitare su quelle ufficiali. Non solo. Sembra di fondamentale importanza una
normativa, per ora assente, che regoli la preparazione professionale dei medici
specializzati in terapie naturali, in grado di garantire al paziente una
risposta completa e professionale ai suoi problemi in piena sicurezza.
Epidemiologia
della malattia
Il virus dell’HIV (immunodeficienza umana) è in continua diffusione in
particolare presso realtà sociali prima solo marginalmente toccate
dall'epidemia e rafforza la sua presenza in aree dove, già da tempo, è la
principale causa di morte fra gli adulti. I dati congiunti di UNAIDS (Joint
United Nations Programme on HIV/AIDS) e OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)
indicano che all’inizio del 1998 più di 30 milioni di persone sono state
infettate con l’HIV, il virus che provoca l’AIDS e che 11,7 milioni di
persone hanno perso la vita a causa della malattia. La situazione tra l’altro
non è destinata a migliorare almeno fino a che sia trovata una cura o i metodi
terapeutici che prolungano la vita, già in uso, possano essere diffusi nel
mondo. Ogni giorno 16000 nuove infezioni sono un dato statistico inquietante in
considerazione della aumentata consapevolezza su come prevenire la diffusione
dell’epidemia. Può essere che la visibilità dell’epidemia debba aumentare
per favorire la prevenzione, quello che è certo è che a tutt’oggi un adulto
su cento, nella fascia d’età sessualmente più attiva (15-49), è colpito
dall’infezione e di questi ben pochi sono consapevoli di ciò che li ha
colpiti. Un aspetto ancora più inquietante della questione sta nella aumentata
diffusione tra i bambini, 600000 nel 1997, che ereditano il virus dalla madre o
alla nascita o con l’allattamento. Dallo scoppiare dell’epidemia sul finire
degli anni ’70 a oggi sono 3,8 milioni i giovani sotto i quindici anni
colpiti, anche se i recenti sviluppi nella conoscenza delle modalità di
trasmissione della malattia tra madre e figlio e nella ricerca farmacologica
garantiscono la riduzione del numero di bambini infetti almeno nei paesi dove le
donne in gravidanza posso scegliere di sottoporsi al test per l’HIV. Entrando
nel dettaglio statistico l’89% delle persone con l’HIV vive nell’Africa
sub-Sahariana e nei paesi asiatici in via di sviluppo che ammontano insieme al
10% del PIL (prodotto interno lordo mondiale). È significativo anche valutare i
cambiamenti nelle vie evolutive dell’epidemia. Mentre in alcuni paesi l’HIV
è rimasto a livelli piuttosto bassi in altri si assiste a un rapido sviluppo
dell’infezione, tra questi l’Asia, l’Europa dell’est e il sud
dell’Africa, in America Latina invece la situazione è diversa a seconda delle
zone considerate.
Ma passiamo brevemente in rassegna la
situazione nelle singole zone:
Africa sub-Sahariana
I 2/3 delle persone affette da HIV nel mondo, circa 21 milioni, vive in
Africa a sud del deserto del Sahara e l’83% delle morti è in queste zone. La
principale via di diffusione è quella dei rapporti eterosessuali, ciò
significa che le donne sono più colpite in Africa, i 4/5 del totale, che in
altre zone dove il virus si diffonde molto più rapidamente per rapporti
omosessuali o per tossicodipendenza. Come conseguenza diretta di questo fatto i
bambini sono in Africa maggiormente colpiti anche solo per la grande prolificità
delle donne africane che tra l’altro in prevalenza allattano al seno. I
farmaci ora disponibili hanno poi difficoltà di diffusione in queste zone
povere. In generale si può affermare che il grado di contagio è molto maggiore
nelle zone est e sud dell’Africa rispetto all’ovest dove si è stabilizzata
su livelli piuttosto bassi. Gli stati dove il contagio è più che mai elevato
sono fra gli altri Zimbabwe e Bostwana mentre il primo e forse unico stato a
dare vita a una significativa campagna di risposta al fenomeno è stata
l’Uganda. Innanzitutto con una politica di informazione mediata da leader
religiosi e politici e poi con programmi educativi nelle scuole volt a ritardare
l’età del primo rapporto e ad adottare comportamenti sessuali sicuri.
Asia
Qui l’infezione è arrivata tardi ma
non ha perso tempo. Se infatti negli anni ’80 si poteva considerare immune
l’intero continente, a partire dal 1992, soprattutto in alcuni paesi
Thailandia in testa, il numero di infezioni si è moltiplicato in particolare
tra gruppi a rischio come i tossicodipendenti e le prostitute. Non siamo ai
livelli sudafricani ma ugualmente la diffusione è consistente soprattutto nel
Sudest asiatico, fatta eccezione per alcuni stati come Indonesia e le Filippine,
mentre anche in Cina, pur con una bassa incidenza il fenomeno si sta facendo più
significativo. Mancando fra l’altro sistemi di monitoraggio adeguati, i dati
sull’entità dell’AIDS non possono essere assolutamente rigorosi. Come
premesso due sono le vie di trasmissione più diffuse e coincidono con piaghe
sociali di queste zone: la droga e la prostituzione, fenomeni dilaganti in
queste aree geografiche dove il gap tra ricchi e poveri è crescente. Non a caso
anche le altre malattie sessualmente trasmissibili hanno flagellato queste zone
in modo crescente negli ultimi anni e il trend non sembra variare. L’India è
lo stato dove è più alto il numero di sieropositivi nel mondo, 4 milioni di
persone, il dato è però facilmente attribuibile all’alto numero di abitanti.
Nel complesso sono 6,4 milioni i sieropositivi in Asia 1 su 4 del totale
mondiale.
America Latina e Caraibi
Qui il quadro è piuttosto frammentato
anche se in linea generale l’andamento è simile a quello dei paesi
industrializzati. Le categorie a rischio in quest’area sono in particolare gli
omosessuali e i tossicodipendenti, anche se il crescente numero di donne
coinvolte è sintomatico di una tendenza crescente di malati attraverso rapporti
eterosessuali. Il dato molto significativo di queste regioni riguarda,
soprattutto in Brasile, il livello educativo dei soggetti coinvolti. Nel 60% dei
casi infatti le persone con l’AIDS non sono andate oltre gli studi primari.
L’uso di misure profilattiche è comunque decisamente più significativo che
in Africa e in Asia così come anche il sistema di controllo e cura dei malati
è sicuramente più rilevante anche se ancora non sufficientemente omogeneo.
Europa dell’Est
È sicuramente una delle realtà dove
in tempi recenti la situazione è cambiata in modo radicale con un aumento
significativo delle infezioni a partire dal 1995. Il fenomeno dilagante è
quello della droga che ha portato l’Ucraina da sola a totalizzare quattro
volte le infezioni di tutta l’Europa dell’est in soli tre anni. I 4/5 delle
infezioni quindi arrivano dai consumatori abituali di droghe, ma c’è da
preoccuparsi anche per la diffusione del contagio per via sessuale, lo si desume
dal monitoraggio delle donne in cinta e dei donatori di sangue, che suggerisce
che il virus è in aumento nella cosiddetta società civile. Il dato è
inquietante anche per le malattie sessualmente trasmissibili, la sifilide in
particolare, che è segnale di una diffusione del sesso senza protezione, il
rischio è così tangibile.
Il mondo industrializzato
Nei paesi ricchi l’andamento
dell’infezione è in diminuzione grazie alla diffusione dei farmaci
antiretrovirali somministrati alle donne in gravidanza e alla disponibilità di
metodi alternativi all’allattamento che ha abbassato considerevolmente la
trasmissione orizzontale, quella madre e figlio. Mentre nuove infezioni si
diffondono tra i tossicodipendenti, è significativo che i casi di
sieropositività sono in aumento, mentre i casi di AIDS, cioè di acquisizione
dell’immunodeficienza, sono in diminuzione. Questo dato è dovuto anche
all’aumentata consapevolezza in particolare nella comunità gay e al crescente
ricorso a misure profilattiche, oltre a quello ai farmaci che, pur non
risolutivi, possono allungare la sopravvivenza. Sono altri invece i gruppi
sociali in "pericolo". Negli Stati Uniti alcune comunità come quella
afroamericana o quella ispanica sono più a rischio anche per le maggiori
difficoltà di accesso alle possibilità terapeutiche e per la difficile
trasmissione di messaggi di prevenzione in realtà sociali poco evolute.
Le ragioni sociali
Ma perché certi paesi e certe
categorie sociali sono più colpite dall’infezione di altre? La risposta
immediata individua due possibili risposte: povertà e ignoranza. A livello
globale la risposta è valida, ma se si analizza in modo più fine
l’evoluzione dell’epidemia le modalità sono differenti in ogni paese e
anche tra paesi confinanti ci sono differenti caratteristiche della malattia. È
evidente che un più alto livello di cultura dà accesso a maggiori informazioni
sul virus: come si trasmette e come evitarlo. E le statistiche lo confermano
esiste una corrispondenza tra diffusione dell’HIV e livello culturale, ma se
si analizza per esempio la regione sub-sahariana, quella più colpita
dall’Aids, emerge un dato sorprendente il rapporto tra livello culturale e
diffusione della malattia si inverte. Esiste infatti una grande diffusione della
malattia tra le persone alfabetizzate per almeno due ragioni fondamentali: la
prima è che una migliore scolarizzazione porta con sé maggiore mobilità
sociale e con questa maggiori opportunità di relazioni anche sessuali, un
discorso particolarmente vero per la popolazione femminile. Un’altra ragione
individuata riguarda i maggiori guadagni ed il conseguente "maggior
potere" che agevola comportamenti che mettono a rischio di infezione.
Questo è vero soprattutto nelle prime fasi di infezione quando l’informazione
sui pericoli della mancanza di protezione è scarsa e l’informazione diventa
un handicap. Da ciò non si deve dedurre che l’educazione non sia importante.
Anzi. Come vedremo meglio in seguito soprattutto nelle giovani generazioni che
hanno avuto più possibilità di accedere ad informazioni sono diminuite le
infezioni. I comportamenti individuali che conducono alla malattia sono mediati
da importanti fattori sociali: la povertà, le disuguaglianze tra uomo e donna o
generazionali o ancora problemi culturali e religiosi. Ma quello che più
sconcerta è che in molti paesi ancora mancano le informazioni di base su come
si diffonda il virus e sui pericoli portati da comportamenti, sia sessuali sia
nell’assunzione di droghe, sbagliati. Non è sufficiente quindi dotarsi di
sistemi di sorveglianza che monitorino l’andamento del virus tra le varie
popolazioni, se poi non portano a azioni preventive sull’impatto della
malattia. L’ideale quindi potrebbe essere la sorveglianza sui comportamenti
che permette di delineare trend , di stabilire cambiamenti o di registrare
successi o fallimenti ma non senza la sorveglianza sulla diffusione del virus. I
sistemi di sorveglianza in uso attualmente hanno in alcuni casi fallito nel
delineare lo sviluppo dell’epidemia e questo è dovuto in parte alla
particolare modalità dell’infezione. In genere i tempi di latenza sono
piuttosto lunghi e la malattia può manifestarsi anche dieci anni dopo. I dati
di sierosorveglianza sono così difficili da interpretare e lenti a riflettere i
cambiamenti nel manifestarsi di nuove infezioni.
La prevenzione
Oggi l’AIDS è una patologia di
grande visibilità e non più silente come negli anni scorsi, per questo è il
momento ideale per attivare azioni preventive sempre più organiche. Le campagne
di prevenzione devono contemplare conoscenza dell’HIV e di come evitarlo;
creare ambienti nei quali si affrontino in modo esplicito argomenti come la
sessualità più sicura o comportamenti igienici nell’uso di droghe; aumentare
i test sia sull’AIDS che sulle altre malattie sessualmente trasmissibili;
favorire l’accesso ai preservativi riducendone i costi e infine aiutare le
persone ad acquisire le conoscenze necessarie per proteggere sé e il proprio
partner, sono solo alcuni degli accorgimenti da adottare a scopo preventivo. Ma
anche le politiche economiche e sociali devono essere rivolte a questa finalità
attraverso per esempio opportuni interventi legislativi. È accertata infatti
l'efficacia di campagne di prevenzione in realtà meno evolute come quelle
africane. Ne è un esempio il Senegal dove il convergere delle iniziative
politiche, religiose e sociali ha favorito la diminuzione dei casi di AIDS,
questo non significa introduzione di costumi rigidi e austeri, difficilmente
pensabili in simili contesti, ma maggiori precauzioni. Realtà come quelle della
Thailandia invece suggeriscono che la prevenzione può risultare efficace anche
laddove la diffusione del virus sia in forte crescita. Il governo thailandese
infatti a fronte dell’emergenza AIDS ha diffuso la conoscenza del problema
nell’opinione pubblica e ha introdotto realtà, simili alle nostre ex case
chiuse, nelle quali fosse garantito il ricorso a pratiche di prevenzione.
Inoltre una campagna mass-mediologica ha incoraggiato un maggior rispetto per le
donne, scoraggiando gli uomini dalle pratiche sessuali a rischio. Non solo. Tra
le "professioniste del sesso" si è diffusa maggiore informazione e si
sono aperte nuove alternative di vita alla prostituzione. Una forte campagna
informativa e di prevenzione con l’uso capillare di mezzi profilattici che si
è rivelata così molto efficace sia sui comportamenti a rischio sia sulla
diffusione del virus. Ma altre realtà occidentali e industrializzate come la
Gran Bretagna e la Svizzera, oltre alla Thailandia e al Senegal, testimoniano
l’efficacia di campagne di prevenzione e dell’educazione sessuale
soprattutto tra i giovani.
L'
AIDS è ancora emergenza
L'Aids si sta diffondendo a un ritmo allarmante in tutto il mondo, ma in Africa
siamo alla vera e propria emergenza: dei 33,6 milioni malati di Aids, 23,3
vivono nell'Africa Sub-sahariana. Fra le categorie più esposte secondo
l'organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ci sono giovani e bambini: un
milione e duecentomila piccoli africani soffrono di Aids. La metà dei malati ha
contratto il virus prima dei 25 anni; molti ragazzi malati muoiono prima dei 35.
Il 95% delle persone affette dal virus risiede in paesi in via di sviluppo, dove
la povertà, la mancanza di assistenza sanitaria e l'insufficienza delle risorse
alimentano la diffusione della malattia. Il dato è ancora più allarmante se si
pensa che il numero delle donne infette ha superato del 5-6 per cento quello
degli uomini, con la conseguenza che il virus viene trasmesso con facilità al
feto. Nel '99 più di 500.000 bambini in tutto il mondo sono stati infettati
dalle madri, le statistiche inoltre dimostrano che in Africa nel 2010 ci saranno
40 milioni di orfani. Oltretutto secondo l'OMS la maggior parte degli uomini in
Africa non si è mai sottoposta al test per l'Aids. Molti di loro dunque
trasmettono il virus senza neanche saperlo. Per entrambi i sessi, l'aspettativa
di vita in Africa meridionale dovrebbe abbassarsi dai 59 ai 45 anni tra il 2005
e il 2010, a causa del diffondersi dell'epidemia. Impressionante il dato che
riguarda lo Zimbabwe, uno dei paesi più colpiti: nei cinque anni presi in
considerazione l'aspettativa di vita scenderà da 61 a 33 anni. Ma la battaglia
contro l'Hiv deve restare aperta anche nei paesi industrializzati dove esistono
segni estremamente preoccupanti.
L'impegno dei governi
Il peggiorare della situazione ha finalmente portato molti capi di stato dei
paesi più ricchi, ad alzare la voce e ad aumentare gli investimenti. Ma ancora
non basta. Alla vigilia dei lavori Bill Clinton ha scritto in un editoriale sul
Washington Post che il dramma dell'Aids dovrebbe essere fronteggiato dagli Usa
"come faremmo per ogni questione di vita o di morte: con schiacciante
determinazione e un investimento pari al 22% della cifra totale
necessaria". Lo ha ribadito anche Kofi Annan segretario generale dell'Onu
che auspica un fondo mondiale disponibile entro il 2002, con una dotazione
compresa fra uno e tre miliardi di dollari, ma servono contributi più
sostanziosi. Finora, infatti, nel cappello delle offerte sono confluiti solo 528
milioni di dollari versati da Usa, Francia, Gran Bretagna e dalla Fondazione
Gates. Unica donazione dell'industria privata quella da un milione di dollari
della compagnia assicurativa svizzera Winthertur. Un terzo dei fondi anti Aids
sarà a carico dei paesi in via di sviluppo, il resto tocca ai paesi
industrializzati e gruppi privati. Il totale sarà spartito tra cure e
prevenzione. L'obiettivo del piano finanziario è garantire la terapia
antiretrovirale ad almeno la metà delle persone infettate dal virus nei paesi
poveri dove l'epidemia è in crescita spaventosa. Un'altra nota dolente
riguarda, infatti, il prezzo dei farmaci, oggetto del contendere tra i governi
degli Stati poveri e le industrie. Gli "sconti" prospettati
renderebbero più accessibili cure che ora soltanto poche migliaia di
"fortunati" possono permettersi. Quelle cure che hanno permesso in
Italia, come nel resto d'Europa, una netta diminuzione dei malati di Aids.
Secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, nel 2000 i nuovi casi sono
stati poco meno di 1900, una cifra tre volte inferiore ai quasi seimila che
venivano scoperti negli anni del picco dell'epidemia. La terapia antiretrovirale
permette, infatti, di tenere la malattia allo stato latente.
Emblematiche, in chiusura, le parole di Kofi Annan: "oggi a New York
l'assemblea generale delle Nazioni Unite comincia una sessione speciale su Hiv/Aids,
durante la quale sono sicuro che altri paesi annunceranno il loro contributo.
Ogni giorno perduto è un giorno in cui oltre diecimila nuove persone si
infettano con il virus Hiv e milioni di persone che hanno già sviluppato l'Aids
soffrono inutilmente. Noi possiamo battere questa malattia. Ma dobbiamo farlo
subito. Perché più rinviamo più alto sarà il costo."
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