Il
progetto
Con
la torre per uffici 101 Second street, firmata dall’architetto Craig Hartman,
partner di Skidmore, Owings & Merrill (Som), viene “violato” il principio
insediativo della downtown di San Francisco, che per lungo tempo ha avuto
nell’asse viario di Market street la linea di demarcazione sia urbanistica che
di costume fra mondo finanziario e cultura bohémien. La realizzazione della
torre, che riesce a mediare tra le due anime della zona, avviene sulla spinta
del quarto boom edilizio nella giovane storia della città. Alla prima espansione
a grande scala determinata dalla corsa all’oro del 1849 segue un periodo di
forte crescita fra il 1906, anno del disastroso terremoto, e il 1929, crollo
della Borsa di Wall street. Il secondo dopoguerra è teatro della terza fase di
pronunciato sviluppo della metropoli californiana, durante il quale sorgono
edifici del calibro di Crown Zellerbach dei Som e la Bank of America di Pietro
Belluschi.
Nel 1985 l’imprenditore Jack Myers, proveniente dalle Hawaii,
avvia l’operazione 101 Second street senza la certezza di potenziali acquirenti.
Il progetto dovrà affrontare un iter molto travagliato e due regolamenti edilizi
prima di essere realizzato. Il clima politico è ostile a simili iniziative:
nella metà degli anni Ottanta sia gli abitanti che le autorità temono un
processo di “Manhattanizzazione” di San Francisco, dovuto a un accelerato
incremento del terziario che provoca un indesiderato aumento in altezza nel
Financial District. Inevitabilmente il progetto incontra opposizioni. Nel 1986
il sentimento anti-grattacielo si concretizza nella Proposition M, che limitava
le nuove edificazioni destinate a uffici a 300 mila metri quadri all’anno,
equivalenti a due torri della grandezza di 101 Second street. L’obiettivo era
arginare il fenomeno della sovrapproduzione di edifici alti, una tendenza che
interessava le maggiori aree urbanizzate statunitensi, e riorganizzare le
risorse economiche della Bay Area per garantire un più equilibrato sviluppo con
il settore residenziale e infrastrutturale.
Sul piano tipologico, il
diagramma compositivo prevalente del grattacielo nella San Francisco di quegli
anni comprendeva un nocciolo strutturale dei servizi in posizione baricentrica
rispetto alla pianta, circondato da una corona di spazi serviti. Nel tentativo
di sopperire alla carenza di abitazioni, gli architetti elaboravano proposte
d’uso misto: alloggi nelle parti superiori delle torri e uffici ai piani
inferiori. L’idea portante era coniugare gli ambiti del lavoro con quelli della
residenza. Con la Proposition M l’altezza massima consentita viene fissata a 180
metri. Il nuovo codice edilizio impone limitazioni dimensionali del perimetro
dell’edificio rispetto al lotto disponibile, la destinazione di una parte della
superficie coperta per uso commerciale e una percentuale dell’area da adibire a
spazi all’aperto. Durante questo periodo sorgono i cosiddetti Beauty Context
nella storia della progettazione verticale della città. 101 Second street matura
nell’agone stilistico di quegli anni. Nella sua prima stesura e approvazione, il
progetto aderiva alle trite formule compositive del Postmoderno: una massa
architettonica che va a rastremare in altezza secondo un profilo scalettato. I
piani terminali della torre erano poco meno di 2.700 metri
quadri.
La soluzione di
Hartman
Ma nel 1989 l’economia crolla. San Francisco ha già raggiunto
il tetto ammesso dalla Proposition M per la costruzione di uffici. Nel frattempo
emergono nuove forme di pratiche professionali e con esse nuove richieste di
spazi. Gli studi legali, ad esempio, cambiano dal formato boutique a società con
alto numero di personale. 101 Second street viene così rivisto per venire
incontro alla diversa domanda di spazi per il lavoro. Questa seconda e decisiva
rielaborazione viene affidata a Craig Hartman, appena trasferito dall’uffico di
Washington D.C. alla sede di San Francisco dei Som.
Nel misurarsi con la
tradizione statunitense dell’edificio alto, Hartman mette a fuoco un’idea che
risolve le istanze a scala paesaggistica del grattacielo nell’invaso della baia
sino a zoomare nelle particolarità contestuali dell’incrocio fra Second street e
Mission street. Il progettista ripropone un tema tridimensionale che ha già
sperimentato nel 100 East Pratt street di Baltimora nel Maryland: l’assemblaggio
di un volume tramite la giustapposizione di una serie di sottili piani
perpendicolari al piano di terra, un vero e proprio collage architettonico
verticale.
Schematicamente, l’edificio di 26 piani è composto da un nocciolo
strutturale e una gabbia di vetro, dove i pilastri vengono progettati per
resistere esclusivamente a carichi verticali. Sul piano formale, una successione
di tre solidi vetrati ascende per formare il contrafforte trasparente di una
monumentale lastra in pietra, forata ai lati da una trama di finestre. Nel
fronte opposto, una gabbia di vetro, convessa per generare inconsueti effetti
luminosi sulla facciata, sigilla la progressione plastica delle masse
architettoniche in un’immagine chiaramente identificabile nel connotato skyline
della città. L’attacco a terra rivela un’attenzione per la specificità dei
luoghi assolutamente inconsueta per un manufatto di tale scala. Nei punti di
sutura fra i confini del lotto e il costruito adiacente, l’architetto
parcellizza la cubatura del nuovo intervento per entrare in assonanza
altimetrica con gli edifici preesistenti, assicurare una transizione il più
possibile indolore verso il deciso movimento verticale dell’organismo edilizio e
riproporre i modelli di occupazione del suolo familiari agli abitanti della
metropoli californiana.
Un atrio pubblico Le pressanti esigenze urbanistiche
dell’angolo fra Second street e Mission street vengono brillantemente risolte
tramite il disegno di un raffinato atrio a quintupla altezza che, nel
convogliare l’utenza nel percorso dal piano strada verso i livelli superiori,
funge anche da contenitore d’arte. Tale mediazione architettonica fra sfera
pubblica e ambito privato è la risposta di Hartman al vincolo del regolamento
edilizio, che prevede l’assegnazione di parte della superficie del lotto a
spazio all’aperto. Sebbene non rientri nel conteggio dell’area coperta del
progetto, la spesa per la realizzazione del grande atrio ammonta al dieci per
cento dell’intero costo di costruzione. Inoltre, l’uno per cento di quella somma
deve essere destinato a opere d’arte, secondo le norme vigenti. L’imprenditore
in persona commissiona la scultura di Larry Bell e il murale di Charles Arnoldi.
Dall’interno di questo spazio, dove trova posto una caffetteria, la città viene
proiettata nello schermo di vetro che inquadra ampie porzioni della downtown,
soprattutto dal livello del mezzanino. Le caratteristiche proporzionali di
questo pezzo vengono ricavate dal contiguo Rapp Building, preesistenza storica
nel tessuto urbano locale.
Difesa dal vento
Gli
elementi alari che caratterizzano le terminazioni dei volumi vetrati su Second
street sono tutt’altro che arbitrari. Il vento che viene dall’Ovest dell’Oceano
Pacifico investe perpendicolarmente i piani verticali degli edifici alti e crea
gorghi che spesso rendono il livello stradale inabitabile. Per ovviare a tale
inconveniente, Hartman profila una sezione scalettata della torre per ridurre
l’altezza relativa dell’edificio e la superficie d’impatto al fine di smorzare
l’effetto del vortice del vento. Inoltre gli alettoni raccolgono e convogliano
le raffiche, in modo che la loro forza venga suddivisa in tre parti e abbia una
ripercussione minima sul suolo. Sia il volume in pietra che la partizione
geometrica del curtain wall si riferiscono alle striature verticali del Pacific
Telephone Co., Main Offices del 1925 a firma di Miller & Pflueger. Per
riallacciarsi alla tradizione della terracotta negli edifici degli anni Venti di
South Market, area in cui sorge il progetto, Hartman inizialmente propone il
granito, ma in seguito ripiega verso l’adozione di una pietra calcarea
proveniente dal Sud della Spagna, simile a quella usata nel Museo Guggenheim di
Bilbao ideato da Frank Gehry. 101 Second street è il primo grattacielo a essere
costruito negli ultimi dieci anni a San Francisco e testimonia di un nuovo corso
architettonico-stilistico nella costruzione della nuova identità della città.
Sull’onda dei grandi movimenti di capitali provocati dal benessere finanziario
della new economy, che determina continui investimenti nel settore immobiliare,
la comunità della Bay Area si trova di fronte al bivio tra la scelta di
arroccarsi in posizioni nostalgico-conservatrici nella memoria del proprio
passato pseudo-vittoriano o sostenere proposte innovatrici che concretizzino
nello spazio urbano la consapevolezza del proprio tempo. I prossimi dieci anni
saranno decisivi.