KATATONIA: “LAST FAIR DEAL GONE DOWN”
di Daniele Titta


courtesy of © Peaceville
courtesy of © Peaceville


Sulla copertina di questo “Last fair deal gone down” troneggia una scritta: “Probably the best Peaceville album ever”… potenza della pubblicità! Questo nuovo lavoro dei Katatonia è effettivamente un gran bel disco, una delle ultime gemme nel panorama Gothic, ma non può reggere il confronto con i “veri” capolavori della Peaceville come “Alternative 4” ed “Eternity” degli Anathema e “Gothic” dei Paradise Lost. Spinti dal giusto successo per un disco come “Tonight’s decision”, che aveva rivelato al mondo un nuovo gruppo malinconico e introspettivo come solo i già citati Anathema avevano saputo essere, dopo un paio di anni di distanza i Katatonia tornano a far parlare di loro. “Last fair deal gone down” è un lavoro di passaggio, una specie di via di mezzo tra il rock più metallaro dei precedenti lavori e il Gothic più struggente che sembra essere la nuova strada dei Katatonia. La loro maturazione è evidente, tangibile. Dalle song grezze di un tempo, dalla rabbia cieca della precedenti produzioni, il gruppo si è evoluto abbandonando la potenza per dedicarsi ad un lavoro di studio interiore, di scavo profondo dentro l’anima. “Last fair deal gone down” è un disco triste, trafitto da mille dolori, da mille paure che si sovrappongono, corrono lungo le note di undici piccoli sogni. Nonostante una produzione non eccezionale, il lavoro risulta discretamente omogeneo, senza momenti morti o attimi di vero delirio sonoro. La voce a volte è solamente un sussurro, una presenza quasi estranea ad una parte sonora che potrebbe vivere autonomamente. L’opener “Dispossession” è forse il pezzo peggiore del disco, ma non fermatevi, proseguite nell’ascolto di questo disco che suonando si schiude come un fiore, come uno scrigno pieno di tesori. Già la seconda traccia “Chrome” è un ottimo brano Gothic, ma è dalla terza canzone in poi che il disco decolla. Fantastiche “We must bury you” e le due successive “Tear gas” e “Transpire”. Ma è tutto il lavoro a far sognare, a risultare difficile solamente all’ascoltatore più distratto. C’è tanto dolore in un disco del genere, ma anche tanta voglia di rinascere, di credere ancora. “Last fair deal gone down” non è il disco migliore della Peaceville, ma c’è molto vicino.

 

SLAYER: “GOD HATES US ALL” (ISLAND)
di Daniele Titta

Sono pochi i gruppi che ad ogni loro uscita sconvolgono il mercato discografico di solito adagiato sulla vendita di prodotti commerciali. Tra questi ci sono sicuramente gli Slayer. Tre anni dopo l’uscita dell’ottimo “Diabolus in musica”, gli Slayer tornano in perfetta forma con questo “God hates us all”. Non siamo sui livelli del loro capolavoro assoluto “Reign in blood”, ma ci siamo abbastanza vicini. Disco violento, aggressivo, estremo, tutto maledettamente Slayer. Si rischia di cadere nella retorica, nell’esaltazione di un gruppo che ormai non ha più niente da dimostrare, se non di essere come al solito un gradino sopra gli altri. Nessuno in campo thrash metal è capace di stare al loro livello. Nonostante le loro uscite siano rare, o perlomeno non frequenti come ad inizio carriera, gli Slayer sanno illuminarci sempre con delle gemme di valore inestimabile. “God hates us all” è un titolo terribile, profetico, adatto alla musica degli Slayer. Nessuno ha una vita perfetta, tutti sono costretti, almeno una volta nella vita, a subire qualche calvario, qualche difficoltà seria. La furia di Dio può scagliarsi su di noi in ogni momento. Un titolo che può essere considerato anche un monito su come prendere la vita. Musicalmente “God hates us all” non aggiunge nulla di nuovo ad una miscela già collaudata da una carriera quasi ventennale. Ritmiche assassine, chitarre lanciate a velocità folle, il solito basso isterico, insomma il repertorio classico che ha fatto degli Slayer una band di culto. Abbiamo avuto l’impressione che questo sia il disco più professionale del gruppo americano. Nonostante i tempi di vera e pura ispirazione siano passati, le produzioni degli Slayer rimangono su un ottimo livello grazie alla professionalità dei musicisti. Ma questo non vuol dire che sia un disco costruito, anzi, la vitalità che sprigiona questo lavoro è devastante, reale. Probabilmente a “God hates us all” seguirà un tour che speriamo possa passare nella nostra penisola. Consigliamo di non perdere il gusto di vedere la band dal vivo. La potenza e l’enorme impatto sonoro che i quattro californiani sanno imprimere alle loro prestazioni live non teme confronti. Gli Slayer hanno dimostrato ancora una volta che bisogna inchinarsi davanti agli dei del metallo.

SLIPKNOT: “IOWA” (ROADRUNNER)
di Daniele Titta


courtesy of © Roadrunner
courtesy of © Roadrunner


I nove psicopatici dell’Iowa sono tornati. Catapultati al successo con l’omonimo “Slipknot”, uscito un paio di anni fa, il gruppo americano torna a far parlare di sè con questo “Iowa”. L’atmosfera che il gruppo è riuscita a creare su sé stessa, l’immagine distorta che ci arriva attraverso le loro foto e le loro inquietanti maschere li hanno aiutati non poco a raggiungere la fama e la notorietà che forse non meritano. Abbiamo l’impressione che il fenomeno Slipknot sia qualcosa di costruito, di definito a tavolino per un pubblico di nuovi adepti che sbavano dietro a tutte le band nu metal. Ma se gruppi come Korn, Deftones o System of a Down hanno realmente qualcosa da dire, da esprimere attraverso la propria musica, gli Slipknot ci propinano solamente rabbia e violenza fine a se stessa. Un continuo “vaffanculo” al mondo, un lamentarsi su come nessuno li abbia mai presi sul serio. Insomma, le solite cose. Tutto senza intelligenza, però. O meglio, l’intelligenza c’è, ma dei loro produttori e della loro casa discografica, che sono riusciti a creare una macchina da soldi dietro un gruppo finto. Iniziamo dalla formazione: nove elementi. Senza senso, nove elementi nella musica degli Slipknot non servono. Però un gruppo formato da nove persone fa parlare di sè. E allora ecco l’ennesima operazione di marketing. Dal vivo sono inascoltabili. Rumore, solamente rumore e tanta coreografia per distogliere l’attenzione da una musica piena di imperfezioni e dalla scarsa capacità tecnica. Recensire un disco come “Iowa” non è semplice, c’è ben poco da dire, tanto è irritante e vuoto di contenuti. Se nel precedente “Slipknot” qualcosa di positivo c’era, “Iowa” non è altro che un ammasso di song arrabbiate, urla e qualche riff di chitarra ad effetto. Dopo l’inutile introduzione “515” (che non ha nessun senso, ma fa molto “strano”), parte la prima canzone “People = shit”. A parte il titolo di cattivo gusto (ma non ci scandalizziamo per questo) la cosa che più fa inorridire è l’assoluta superficialità del gruppo. Un titolo del genere è creato per attirare tutta quella massa di ragazzini incazzati col padre e col mondo, che così potranno riconoscersi nelle (finte) tematiche degli Slipknot. Seguono una serie di brani senza capo nè coda, con il cantante Corey a sgolarsi e gli altri a cercare inutilmente di suonare in modo accettabile i loro strumenti. L’unico episodio interessante è “The heretic Anthem” con un bel pezzo di batteria (l’unico strumento suonato bene). Il singolo, “Left behind”, puzza di commerciale lontano un miglio. L’unica cosa che ci è piaciuta di “Iowa” è la copertina. Perché gli Slipknot ci sanno fare, questo è indubbio. Stanno vendendo valanghe di dischi, senza averne merito. Hanno saputo costruirsi un’immagine da film horror, qualcosa che va bene per i 17enni. Sul palco sono carismatici (ma chi non lo sarebbe con un gruppo di nove elementi), ma in fase di songwriting lasciano molto (troppo) a desiderare. Ma la musica, la vera musica metal, in mano a questi pagliacci che fine ha fatto?

LOVE LIKE BLOOD: “CHRONOLOGY OF A LOVE AFFAIR”
di Daniele Titta




Probabilmente l’unico motivo che ha spinto i Love Like Blood ad intraprendere questa avventura è stato l’amore per questo genere musicale: il dark.
“Chronology of a love affair” è una stupenda rivisitazione di sedici canzoni dark che hanno segnato, a loro modo, un’epoca. L’opera è divisa per quinquenni, partendo dal 1980 fino ad arrivare ai giorni nostri. Per ogni cinque anni sono stati scelti i gruppi più importanti, ovviamente sempre in ambito dark/gothic, in una delle loro più belle e significative canzoni. Il commento a questo disco va fatto, quindi, considerandolo come quattro lavori distinti.
Cominciando con il periodo che va dall’80 all’85, i gruppi scelti sono Joy Division (“Decades”), Bauhaus (“She’s in Parties”), The Cure (“A Strange Day”) e Sister of Mercy (“Lucretia My Reflection”). Sono tutti e quattro dei gruppi storici, capostipiti del dark. Si parte da quello minimale, essenziale dei Joy Division, fino agli albori del gothic con i Sister of Mercy. Il senso dei pezzi è, più o meno, quello degli originali, ma i Love Like Blood li hanno fatti propri, così da dargli nuova linfa e renderli ‘più attuali’.
Nell’arco degli anni che vanno dall’85 al 90, troviamo i Christian Death (“Church of no Return”), The Mission (“Wasteland”), The Cult (“Rain”) e Jesus and Mary Chain (“April Skies”). Quattro pezzi stupendi. Forse, in assoluto, le massime espressioni del dark di quel periodo. “Wasteland” è bellissima, non perde nulla della versione originale e, anzi, sembra acquistare qualcosa in termini di dinamica. Da apprezzare anche “Rain”, non propriamente un pezzo dark, ma arrangiata in modo tale da sembrare oscura e morbosa.
Arriviamo così ai cinque anni più ‘oscuri’ della scena dark, dal 1990 al 1995, con i Fields of the Nephilim (“Love under will”), Love Like Blood (“Injustice”), Killing Joke (“Love Like Blood”) e Paradise Lost (“True Belief”). Periodo molto più gothic che dark. I gruppi sono comunque eccellenti: “Love under will” è una delle migliori espressioni dei Nephilim e del loro genere ibrido tra dark ed elettronica. Un po’ di gloria anche per gli stessi Love Like Blood con l’inserimento di un loro pezzo, fino alla stupenda “True Belief” in puro genere Paradise Lost, riconoscibile fin dal riff iniziale.
Dopo questa bellissima cavalcata in quindici anni di dark, giungiamo, finalmente, agli ultimi cinque anni di produzioni oscure: 1995/2000. La scelta dei gruppi è ottima (peccato l’esclusione dei Moonspell): Lacrimosa (“Copycat”), Type O Negative (“Black N°1”), Tiamat (“Whatever thet hurts”) e Marylin Manson (“Great big white world”). Sono quattro pezzi interamente rivisti e ristudiati dai Love Like Blood, con aggiunte apprezzabili e qualche parte ‘alleggerita’ e resa più apprezzabile da un pubblico meno esigente.
“Chronology of a love affair” è una bella perla nera, splendente in un panorama - quello del dark - che ultimamente si stava un po’ irrigidendo su degli schemi forse troppo precisi e settoriali. Un lavoro che rida’ brillantezza a capolavori nascosti sotto la polvere di decenni. Un ascolto per i novizi, un modo per riscoprire i vecchi maestri.