CARLINHOS BROWN




courtesy of © Emi/Delabel/Virgin

Ruggero Gomez da Silva alias 
Maestro di vita do nascimiento......

E’ tornato il ritmo e la voce del Brasile. E’ tornato il più amato ambasciatore e cantastorie di Bahia. E’ tornato Carlinhos Brown.
Robin Hood dei tempi nostri, Carlinhos Brown si appropria delle sonorità moderne per restituirle ai ritmi tribali del proprio popolo. E il popolo dello stato del Bahia è certamente diverso da qualsiasi altro popolo del Brasile e del mondo intero. Entrambi "Youroba", i meticci di Bahia e quelli di Cuba discendono dagli stessi avi, o per meglio dire dagli stessi schiavi d'Africa. Perciò non c'è da meravigliarsi se il ritmo, l'identità musicale, come pure il sangue che scorre nelle loro vene, sia il medesimo.
Innovazione. Dove gli altri credono di aggiornare le sonorità brasiliane semplicemente remixando canzoni care alla cultura del paese, ci pensa Carlinhos Brown a fare le veci del vero innovatore del suono brasiliano. Cresciuto all'interno del famoso gruppo di percussionisti Vai Quem Vem, capitanato da Sergio Mendes e vincitori di un Grammy Award, Carlinhos Brown è figlio della rinascita musicale di Bahia, seguendo la sua strada alla ricerca del suono meticcio per eccellenza. Tutte le tipologie di musica "non brasiliana" vanno bene: jazz, funk, fusion, ska, rap, raggae, ma anche rock e gospel music. Carlinhos è un virtuoso del ritmo, un coltivatore, a tratti maniaco del movimento perpetuo. La sua voce e i suoi arti sono mezzi, il ritmo, qualunque esso sia, pervade il suo corpo e lui lo ritrasmette all'esterno dopo averlo canalizzato nelle sue braccia e nella sua testa.
Ritmo. Re del Brasile, voce dell'estasi e dell'uguaglianza tra le classi sociali, ma anche grande forza mistica. Battito ispirato alla natura, "rumore" più antico e moderno allo stesso tempo, per Carlinhos qualsiasi oggetto è buono per sfogare la sua creatività. Che esso sia un tronco cavo, il dorso di una chitarra, una lattina o un vecchio bongo, le percussioni sono "i pianoforti del terzo mondo", come ama definirli lui stesso.
Divo eccentrico, poeta, geniale e folle allo stesso tempo, pur calcando i palchi di tutto il mondo rimane un musicista di strada, "de rua", un percussionista delle favelas, un "timbaleiros". Principe del carnevale e dei ghetti di Bahia, ma anche autore di tanti successi interpretati negli anni da Daniela Mercury, Maria Bethania, Gal Costa, Caetano Veloso, Luiz Caldas e Sergio Mendes. A dimostrare che oltre alle percussioni, la bossa nova non tramonta mai, neanche per un personaggio come lui.
Dopo il variopinto "Omelete man", affresco rock, funk, raggae e soul - interpretato a modo suo - del 1998 (album che lo ha presentato al mondo intero come la nuova e più fresca voce del Brasile), torna a distanza di tre anni con "Bahia do mondo, mito e verdade". Non rinuncia alla fusione musicale, suo biglietto da visita, ma tenta la strada del pop brasiliano, armonizza la sua voce e addolcisce le sue percussioni. Torna anche a cantare in inglese con la splendida "Mess in the freeway". Un po’ Santana, un po’ Bob Marley e un po’ Manu Chao, Carlinhos come loro è uno spirito libero e un cantastorie unico. Le sue canzoni parlano di storie antiche, di popoli scomparsi e di eventi storici. Dona attraverso la sua musica la nobiltà e la libertà da sempre negata al suo popolo. Popolo a lui tanto caro, perché sorgente ed unica fonte d'ispirazione della sua musica e di tutta quella brasileira; musica che - come la sua gente - ama comunicare, fraternizzare, ridere e far riflettere. Viva Carlinhos Brown, viva Bahia, perla nera del Brasile.

AA.VV. “THE BOMBAY JAZZ PALACE”


Disco da brivido. Chiunque abbia un minimo di sensibilità nei confronti della musica jazz (e del funk neanche a dirlo!) non potrà non convenire sulla fortunata scoperta di queste tracce. Dopo le rievocazioni di casa Outcaste in merito alle colonne sonore di Bollywood e agli intrighi occidentali cospirati intorno alla modalità del raga - rintracciabili su quelle lontane partiture come nei pesanti innesti tecnologici dei compositori di nuova generazione - l’incontro/scontro proficuo è incentrato proprio in chiave indojazz e indofunk. Un riflesso indiretto di quella che fu l’ossessione indiana vissuta per vie differenti da numerosi musicisti, da John Coltrane all’eclatante e massmediatico viaggio dei Beatles. Se volete potete cominciare con il perdervi nelle dense fumolatrie di “Haschish Party” di Georges Gavarenz, compositore francese già alla corte di Aznavour. L’impatto con i Nexus del musicista multiancia Paul Horn (anche per lui il viaggio in India rappresentò una sorta di restauro spirituale) è doveroso. Il blues si bagna nelle acque del Gange in un accattivante “Blues for Hari” servito freddo da Dave McKay e Vicky Hamilton e scritto dal sassofonista losangelino Tom Scott (l’autore della soundtrack di “Starsky and Huctch” e “Sulle strade della California”). Anche Lalo Schiffrin - il compositore e pianista argentino che si nasconde dietro le ineluttabili note di “Mission Impossibile” - deve il suo interesse per l’India al periodo in cui frequentava le lezioni di Oliver Messiaen al Conservatorio di Parigi e guidava un gruppo insieme al trombettista Dizzy Gillespie. Il brano “Secret Code” era la colonna sonora di un film TV degli anni ’70, “Double Jeopardy”. All’inizio il consueto basso a mano armata, al resto pensano le tabla e il Fender Rhodes. Non poteva mancare all’appello l’indimenticato nipote di Ravi Shankar, Ananda, fervente animatore dell’indomood degli anni ’70 fatto di moog e sitar. Ananda - scomparso nel 1999 - viene qui ricordato tramite un indomabile brano come “Universal Magic”. Suggestivo poi il meeting indoafricano con il Gruppo Batuque in “Tabla Samba”; costringe l’orecchio ad allontanarsi dal richiamo timbrico delle tabla per raggiungere i confini ritmici del nord-est brasiliano. Indotrance?

RABIH ABOU-KHALIL: “THE CACTUS OF KNOWLEDGE"


Rabih lascia il Libano nel 1978 a causa della guerra civile che affligge il suo paese. Finisce così insieme al suo oud, l’immancabile liuto della tradizione musicale araba, dalle parti di Monaco. Nonostante il disorientamento iniziale le sue idee sono ben chiare. Aldilà del repertorio tradizionale classico dello strumento, la sua vocazione principale è tutta votata alla composizione di brani che in qualche modo - pur partendo dalle solide radici ritmiche e modali della musica della sua terra - abbiano la capacità di integrare le preziose affinità elettive che riscontra in particolar modo con il jazz ed il rock (il nostro è un’entusiasta all’epoca e ancora adesso di Frank Zappa). Lo ritroviamo oggi a distanza dal suo ultimo e pluripremiato lavoro “Yara” con un nuovo progetto per “big band” dal titolo simbolico e filosofico: “The Cactus of Knowledge”. Anche la musica in tutte le tradizioni mistiche e filosofiche, specie nel mondo arabo, è soprattutto una via di conoscenza oltre che di personale affermazione, comunicazione e comunione. Il fascino di questo viatico viene così rinsaldato da eccellenti compagni di viaggio, alcuni ormai inseparabili come il sensibilissimo percussionista siriano Nabil Khaiat, il virtuoso di tuba francese Michel Godard e il giovane e valente violoncellista Vincent Courtois (da apprezzare nell’introduzione di “Fraises et Crème Fraiche”, una vera e propria oasi di meditativa all’interno del disco). L’arsenale timbrico viene inoltre completato dalla presenza di trombe, sassofoni, corno francese e dal clarinetto del bravo Gabriele Mirabassi. Un vero e proprio assestamento “cool” in termini jazzistici che fa della levigatezza sonora e della gestione dinamica dei piani sonori la via della propria ricerca estetica, corroborata sempre nel corso della sua fortunata carriera artistica. All’interno di questa cornice estetica si muovono i passi liberi e liberati dei differenti musicisti chiamati in causa e scelti proprio in base alla propria straordinaria carica espressiva. Tra i protagonisti del progetto segnaliamo inoltre la presenza di Dave Bargeron, che qualcuno ricorderà al fianco dei Blood, Sweat & Tears, qui impegnato con uno strumento difficile da incontrare come l’euphonium. Difficile resistere - come ci ha ben abituato Rabih - all’intenso virtuosismo ritmico delle sue pagine, a partire dall’ironica introduzione di “The Lewinsky March” che insieme a brani come “Got To Go Home” (con il sax tenore di Ellery Eskelin ispirato decisamente alle “meditazioni” di John Coltrane) o “Oum Said (vortice in sedicesimi la cui partitura e riportata per intero all’interno del booklet) rendono al massimo lo spirito condiviso e l’affiatamento che garantiscono il pieno successo di questa formazione. Una delle migliori produzioni di quest’anno.