ANASTACIA: "FREAK OF NATURE" (EPIC/SONY)



courtesy of © Epic/Sony Music
courtesy of © Epic/Sony Music


Tutti la vogliono e tutti la cercano. Nel giro di appena un anno, passato tra videoclip audaci, migliaia di passaggi radio e una felice partecipazione all'ultimo Festival di Sanremo, Anastacia - oramai ex newcomer - è divenuta la nuova stella del… beh, del grande mix a cui presta la sua voce unica. Si, perché nemmeno lei vuole dare un'identità alla sua musica. E galeotta fu la pubblicità, una volta ancora. Una coppia quasi inscindibile, due bellezze legate dalla telefonia, e la relazione tra Anastacia e Megan Gale sembra voler continuare anche per l'ultima campagna promozionale Omnitel. A ruota segue il marchio D&G che affida alle note di "Not that kind" - hit della scorsa stagione - il compito di promuovere la sua nuova serie di orologi. Alla fine di novembre è tornata, e più che uno "scherzo della natura" dimostra di essere una vera e propria "forza della natura". Nera. Nera come solo una vera soul singer può essere, eppure bianca. La sua, una favola che varca la realtà: da cameriera a comparsa nei videoclip, fino a popstar raffinata. La strada è breve pure se dura quando si ha un dono come il suo. Un po’ Prince e un po’ Cameo, non c'è dubbio che nelle sue vene scorra la musica funk. Ma anche il soul di un grande come Stevie Wonder. Lo si avverte nell'aria, nella musica, nel suo inconfondibile timbro vocale, ma soprattutto nei suoi testi, sempre aggressivi, autoironici e senza peli sulla lingua. In "Freak of nature", titolo scelto dalla stessa cantante per ironizzare sulla potenza fuori dall'ordinario della sua voce, troviamo anche un nuovo aspetto di Anastacia; tante ballate romantiche, ma sempre contraddistinte dalla forza e dalla determinazione del suo carattere “da maschiaccio”. Folk music, dance, funk e soul, Anastacia è tutto questo ed altro ancora. Un solo punto in comune: la foga controllata (ma che esplode nei momenti giusti) e l'aggressività spregiudicata di una donna sicura del proprio sex appeal. Un album travolgente, sexy, se possibile ancora più completo e ricco del precedente "Not that Kind", grazie ad un team di tutto rispetto che le copre le spalle. Ric Wake, già artefice dei successi di Diana Ross e in tempi più recenti di Jennifer Lopez e Mariah Carey; riconfermata poi la coppia Sam Watters e Louise B, autori della bellissima "I'm outta love", canzone che ha lanciato la folgorante carriera della star americana; infine la stessa Anastacia, co-autrice di tutti i suoi testi. Una garanzia per un successo assicurato. La soglia da battere sono gli oltre cinque milioni di copie raggiunte con "Not that kind", un gioco da ragazzi per la "migliore artista pop dell'anno", come recita la sua statuetta vinta durante gli ultimi MTV Music Awards. Insomma, Anastacia la si ama oppure la si ama… e quei pochi che proprio non resisteranno al suo tormentone "Paid my dues" per tutta la durata della nuova campagna pubblicitaria Omnitel, non pensino di potersene liberare tanto facilmente! Anastacia ci accompagnerà lungo tutta la prossima calda estate con "Boom", canzone scritta appositamente per i mondiali di calcio e presentato in anteprima qualche settimana fa a Bausan, nella Corea del Sud.

ABBA: “THE DEFINITIVE COLLECTION”



Sarebbe troppo facile parlare male del quartetto svedese che in dieci anni di attività eguagliò, in fatto di vendite, i Beatles. Per molti era muzak, musichetta facile facile per ragazzine alla prima cotta estiva, o al massimo per casalinghe un po’ frustrate. Semplici melodie “usa & getta” da ascoltare e dimenticare nel breve volgere di una stagione. Ma è indubbio che il perdurante successo delle raccolte pubblicate ciclicamente a vent’anni di distanza dallo scioglimento – peraltro mai ufficializzato – meritino una più attenta riflessione. “The Definitive Collection”, doppio cd recentemente immesso sul mercato con la scusa della rimasterizzazione digitale del repertorio, seguendo cronologicamente la carriera della band ne facilita il lavoro di analisi. Dalle melodie banalotte del primo periodo – “People need love”, “Ring ring” – Agnetha Faltskog, Bjorn Ulvaeus, Benny Andersson e Anni Frid ‘Frida’ Lyngstad trovano la cosiddetta quadratura del cerchio con “Waterloo”, vittoriosa all’Eurofestival nel 1974; un brano che è il lasciapassare per il paradiso per una successiva e incredibile sfilza di singoli e relativi album arrivati al numero uno praticamente ovunque (America compresa!) per sette anni consecutivi. La struttura è quasi sempre identica, ma micidiale nella resa commerciale: strofa, ritornello, strofa. Notevoli impasti vocali e attenzione quasi maniacale nell’evitare di fare un passo più lungo della gamba. E se a questo aggiungete l’impatto delle due bellezze nordiche – perlopiù bionde e brune - il gioco è fatto. L’unico genere con il quale flirteranno sul finire degli anni ’70 - ma per assoluta affinità di intenti - sarà la disco music, depurata da ogni ridondanza orchestrale ed eccesso estremo. Le statistiche parlano chiaro: 19 Top Ten nel Regno Unito, 11 Top Ten consecutivi in Giappone, 23 Top Five in Olanda, e dei 21 Top Ten piazzati nella classifica tedesca, ben 9 giungono in prima posizione. Negli Stati uniti, “appena” dieci singoli nei Top 20 incluso un numero uno (“Dancing Queen”). Con il tempo, si affinano anche le capacità in fase produttiva e di arrangiamento. Bjorn e Benny inseriscono sassofoni e trombe nella provocante “I do, I do, I do, I do”; tingono di reminescenze anni ’30 in piena atmosfera da night club “Money, money, money” e azzardano un attacco a cappella in “Take a chance on me”. “Dancing Queen” è forse il loro brano più famoso e rispettato, tanto da vantare una versione degli U2 qualche anno orsono. Il secondo volume è invece legato all’ultimo periodo, che risente eccessivamente della moda disco. Non cessa l’abitudine di finire stabilmente al numero uno praticamente ovunque, con “Voulez Vous” (qui proposta in doppia versione), “The visitors” ed il vero e proprio “inno” con il quale intitolano il penultimo album da studio, “Super trouper”, che contiene l’ultima canzone da Top 10 finita nelle classifiche italiane dei singoli: “The winner takes it all”. La separazione artistica dei quattro (anche personale, visto che si erano nel corso degli anni sposati e allegramente separati fra di loro) non determina però la fine delle attività musicali. Bjorn e Benny si sono ritagliati con il passare degli anni uno spazio come produttori, firmando qualche successo, ma soprattutto come autori di commedie musicali: “Chess”, per diversi anni in cartellone in molti teatri del mondo, ed ora con un progetto auto-celebrativo: “Mamma mia” – titolo di un'altra celebrissima hit del gruppo - che insieme ad altre 22 canzoni del repertorio ne stanno determinando un enorme successo a Londra, Toronto, Melbourne e New York. Le due signore hanno affrontato il dopo-Abba in maniera completamente diversa; mentre Frida ha inciso alcuni lavori da solista, fra i quali spicca anche a livello di resa commerciale “Something’s going on” (prodotto nel 1982 da Phil Collins), Agnetha, scioccata dopo il rapimento del figlio a meta anni ’80, si è di fatto ritirata a vita privata. Il perdurare del successo del catalogo e delle antologie, d’altronde, garantisce ai quattro una vita da assoluti nababbi.

MICHAEL JACKSON: DAVVERO INVINCIBILE?

 

Michael Jackson:
“Invincible”
(Epic).

Non è oro tutto ciò che luccica. E nemmeno bianco, rosso, giallo, verde o blu, come le diverse copertine di “Invincible”, il nuovo album di Micheal Jackson.
Come già detto per Britney Spears, purtroppo certe regole non valgono nemmeno per il buon Jacko: non sono infatti bastate le impeccabili produzioni del Re Mida del pop/R&B Rodney “Darkchild” Jerkins o di uno staff mostruoso come quello composto da Teddy Riley, Babyface, Dr. Freeze, Andre Harris e R. Kelly ad elevare questo album allo stato di grazia.
Eppure Michael si era preparato molto bene a questo rientro.
Nove anni non sono pochi, soprattutto pensando a quanto è cambiato nel frattempo il mondo della musica, sia a livello di business che di fruizione; consideriamo inoltre che quella stessa America - il più grande bacino di utenza del mondo - che ha ballato per anni sulle note pop di “Thriller” o di “Bad”, nell’ultima decade ha trasformato il mercato virando in termini di consumo quasi esclusivamente alla black music (intesa come rap, rhythm’n’blues o soul, che negli Stati Uniti copre circa l’80% dell’intero mercato discografico).
Di questo vero e proprio “cambiamento” dell’ascolto, Michael Jackson era perfettamente cosciente, e partendo dal presupposto di essere comunque un “nero” (mmmh?) sapeva di dover tornare con un lavoro che fosse moderno e soprattutto competitivo, che fosse insomma intriso di tutti quegli elementi musicali propri del gusto corrente (black oriented).
E allora eccolo spianare la strada con “You rock my world”, il potente singolo funkettone che ha preceduto l’album e che in tutta franchezza aveva fatto ben sperare per “Invincible”. Già meno eclatante il videoclip omonimo diretto da Paul Hunter, che con una pazzesca spesa di 5 miliardi di dollari (di cui 2 per la sola presenza di Marlon Brando), con i Soprano del celebre telefilm come attori e con le sue arie da film gangster anni ’50, non riesce a competere né in aggressività né in fotografia con la stragrande maggioranza dei sempre più spettacolari video trasmessi da tutte le televisioni musicali del pianeta.
Comunque sia, grande attenzione di tutti i media del mondo, di stampa specializzata e rotocalchi, e finalmente il disco nei negozi, con attente operazioni di marketing che lo salvaguardassero dalla sua distribuzione pirata in rete. E quando finalmente lo possiamo ascoltare, brano dopo brano non troviamo nulla di straordinario, nulla che lo distingua dalla media di tante produzioni contemporanee, nulla che lo elevi al di sopra di esse (se non – a tratti - la voce stessa di Jackson), nulla che segni la differenza quantomeno in originalità (un discorso che invece è applicabile al ritorno di Terence Trent D’Arby, per fare un esempio).
Sia chiaro: “Invincibile” è un lavoro ben fatto. Semplicemente, non è straordinario come volevano farci credere.
All’insegna delle più facili rivendicazioni hip hop ed R&B di stampo popolare, apre le danze la cinematografica “Unbreakable” con la voce campionata del mai troppo compianto e grandissimo Notorious B.I.G. (mossa decisamente furba) e i cori di una bravissima Brandy che purtroppo in questa sede passa inosservata (a breve il suo nuovo album); riempiono la tracklist diversi pezzi ritmati come il brano che dà il titolo all’album (anche qui è presente il rap, con le strofe di Fats), “Heartbreaker” e “Threatened”, che con un eccessivo uso congiunto di batterie ed elettronica si perdono facilmente dietro le proprie ambizioni da classifica.
Le vere punte di diamante per Jacko rimangono dunque le ballate: i sussurri delicati di “Speechless”, le chitarre di Carlos Santana in “Whatever happens”, la corale “Cry” firmata sia alle musiche che ai testi da un ispirato R. Kelly, la tenerissima “You are my life” prodotta dal talento di Babyface. Eppure tutto questo non basta. Forse era proprio Quincy Jones a dare quel tocco magico al Michael Jackson degli anni ’80. Ma nonostante i ringraziamenti nel booklet del cd, quei tempi adesso sono lontani.
Con tutta l’enorme spesa di risorse economiche ed umane, con tutti i grandi nomi coinvolti, con tutto il battage pubblicitario di accompagnamento, era poco credibile dare retta a chi gridava al capolavoro, ma “Invincible” aveva comunque tutte le carte in regola per essere un nuovo grande album.
Invece è solo un bell’album.