THE ROCK STEADY

 

No Doubt:
“Rock Steady”
(Interscope Records).

Dopo le recenti collaborazioni in giro per il panorama musicale statunitense, la bionda e attraente Gwen Stefani, front-woman dei No Doubt, ha quasi fatto dimenticare la propria consolidata appartenenza alla band californiana.
Sembra tuttavia un periodo molto intenso e fortunato per tutti, poiché - a solo un anno di distanza dall’ultimo album “Return of the Saturn” - i No Doubt ci riprovano ed escono in tutto il mondo con il loro quinto lavoro: “Rock steady”. Il primo impatto è quello di un ritorno ad una certa spontaneità e naturalezza, ad una musica senza confini e scelte di stile. Immancabile è la voglia di divertirsi e di far ballare al ritmo di dancehall, reggae e del solito ska, che da sempre li caratterizza.
Non sembrano poi così lontani i tempi della famosissima ballata “Don’t speak” (MTV Music Award nel ‘97), della provocatoria “Just a girl” e della old school “Spiderwebs”, i singoli che hanno fatto di “Tragic Kingdom” (del 1995), l’album della loro indiscussa popolarità, proprio per quel misto di ska, new wave, pop, punk e rock.
Una lunga pausa di cinque anni in attesa di "Return of the Saturn", registrato a Los Angeles in collaborazione con Glen Ballard (già produttore di artisti come Alanis Morissette ed Aerosmith) e poi ecco “Rock steady” - dicembre 2001 - registrato in diversi studi tra America, Londra e Giamaica.
L'album vanta una produzione di assoluto rilievo, con nomi del calibro di Neelle Hooper (producer di Björk), William Orbit (Madonna e Blur), Ric Ocasek (Weezer) e il tocco di Mark “Spike” Stent (Madonna, Massive Attack, Oasis) al mixaggio: tante mani e tante teste scelte proprio per dare diversi sapori e tonalità al tutto.
Le tredici tracce del disco sono di nuovo firmate dalle tre penne del gruppo, Gwen, Tony e Tom, con prestigiose apparizioni: Dave Steward degli Eurythmics, i Neptunes per i pezzi più hip hop e - udite udite - lo zampino magico di Prince in persona!
Il primo singolo “Hey baby” è a dir poco travolgente, energico ed accattivante; un invito ad un viaggio tra i suoni e gli odori tipici della Giamaica, ricreati dalle tastiere, prima che dalle corde, senza alcuna perplessità, pura libertà e divertimento, fin dai beat incalzanti della opening track “Hella good”. Continua il movimento con il reggae di “Underneath it all” e il duo Sly & Robbie in “Start the fire” e i beat tribali di “Waiting room”, dove a togliere il respiro sono proprio i vocalismi di Prince. Si passa a un po’ di sana dance anni ’80 con “Making out” e “Don’t let me down” e poi al puro rock dell’ironica “Platinum blonde life” e - per concedersi una pausa - non può mancare la dolcezza della calda voce di Gwen in “Running”, una ballata che riflette tutte le preoccupazioni sulla durata di una relazione (non si riferirà forse al suo compagno Gavin Rossdale dei Bush?). Un perfetto rock steady, forse il più completo ed eclettico lavoro dei No Doubt che senza dubbio devono ringraziare la versatilità della bella Gwen e le parentesi musicali con Eve e Dr. Dre, Moby, Prince e gli U2, fino alla sua recentissima partecipazione con l’All Star Tribute alla cover della celeberrima “What’s going on” di Marvin Gaye.

THE CRANBERRIES: “WAKE UP AND SMELL THE COFFEE”


A distanza di due anni dal loro ultimo lavoro, “Bury The Hatchet”, i Cranberries ritornano con il nuovo album “Wake Up And Smell The Coffee”, registrato a Dublino e pubblicato non più con la Island Records ma con la Mca. “Alzati e annusa il caffè”, è questo il titolo dell’album che nasconde un implicito invito della band irlandese a dimenticare la crisi e le incomprensioni che li hanno visti protagonisti negli anni passati. E’ un album intimista che mette in risalto i colori e i profumi familiari pur mantenendo un certo spirito rock che contraddistingue il loro stile. La presentazione è stata affidata al singolo “Analyse”, segnato dall’inconfondibile voce di Dolores. Al primo ascolto il sound ha un impatto decisamente positivo rispetto ai precedenti album. E’ un pop melodico percepibile fin dalla prima canzone “Never Grow Old”, una musica che sfocia nel romanticismo attraverso le note di “The Concepì”, per arrivare al lento “Carry On” e alla struggente ninna nanna “Chocolate Brown”; unico accenno al mondo esterno e all’impegno socio–politico - argomento molto sentito dal gruppo e ricorrente nei testi del passato - è “Time Is Ticking Out”, un’invettiva ecologista e una forte critica ai disastri ambientali causati dall’uomo. Dieci anni di musica festeggiati con questo quinto lavoro che ha come produttore Stephen Street, l’artefice del successo della canzone “Zombie” e dei primi due album del ‘93 e del ‘94. Il filo conduttore delle 13 tracce è la quiete e la tranquillità, in opposizione al periodo nero vissuto dopo l’immediato successo avuto con il disco d’esordio “Everybody Is Doing It Why Can’t We”, seguito poi da “No Nead To Argue” (15 milioni di copie vendute). Si è parlato dei Cranberries come rivelazione della scena irlandese, ma l’immensa fama è stata seguita da stress, crisi di nervi e le ormai inevitabili situazioni difficili che toccano fin troppe rock band. Tutto sommato questo nuovo album non offre particolari novità dal punto di vista musicale e vocale, pur discostandosi dal solito sound folk-rock celtico permeato da radici provenienti dalla mitologia d’Irlanda; fanno capolino tra una nota e l’altra melodie già sentite, ritornelli che hanno segnato i loro successi (ne è un esempio “This Is The Day” che ricorda molto “Zombie”). I Cranberries si lasciano andare ad un pop insolito e rilassante, segnato da atmosfere elettriche ed orecchiabili contrapposte a ballate e a ritmi più robusti.

LENNY KRAVITZ: “LENNY” (VIRGIN)


A quanto pare, al sexy-rocker di Brooklyn non sono bastati i sette milioni di copie vendute lo scorso anno, con l’antologia di successi “Greatest Hits” ed un Grammy Award come miglior performance vocale rock maschile per l’unico singolo inedito “Again”. Mr. Lenny Kravitz è ora al suo sesto album, “Lenny”: dodici nuove canzoni, il forte e grintoso singolo già strapazzato da ogni radio - “Dig in” - ed un video girato su di una chiatta alle Bahamas. Come tradizione vuole, eccolo nuovamente picchiare forte sulla chitarra, occhialoni scuri, capelli gonfi, jeans attillati da cui spunta il micidiale stivaletto da cowboy – questa volta rigorosamente rosso - ed un’aria da sex symbol a cui è difficile resistere. Il titolo stesso non ci riserva niente di nuovo e forse un capolavoro non se lo aspetta più nessuno. Molto carino, all’avanguardia e tanto americano è invece il suo sito ufficiale su Internet. Il sound è sempre quello anni ‘70, le solite influenze di Hendrix e Prince, in un puro e semplice rock’n’roll a cui ormai ci ha abituati. D'altronde l’album d’esordio “Let love rule”, datato 1989, conquista il pubblico proprio per il suo caratteristico rock ed il piacevole soul, sebbene parte della critica lo accusi di vivere nel passato della musica. Con “Mama said” nel 1991 guadagna il disco di platino, grazie al singolo funky “It ain’t over til it’s over” e si lancia definitivamente verso la notorietà grazie sempre agli influssi musicali che vanno da Curtis Mayfield ai Rolling Stones, a Sly & The Family Stone. E’ soltanto con il suo terzo album, “Are You Gonna Go My Way”, che critici e recensori iniziano a dargli un po’ di considerazione; in “Circus” Lenny riversa tutte le sue autentiche emozioni attraverso la carica sonora di “Rock’n’roll is dead”, una potente energia di rock, funk, ballate e chitarre pesanti. “5” è appunto il quinto album, che comprende “Fly away”, “Little girl’s eyes” (dedicata alla figlia Zoe) e “Thinking of you”, in ricordo di sua madre. Cosa ci può offrire a questo punto il buon Lenny con quest’ultimo album? Si parte subito con il rock sostenuto ed efficace di “Battlefield of love”, un bel ritmo incalzante, veloce, fatto di chitarre distorte (anche se un po’ troppo stile “American woman”) e di “If I could fall in love”; qualche tinta di blues in “Yesterday is gone” e “God save us all” e di sicuro non può mancare la cantilena per la perdita del grande amore in “You were in my heart”; riprende (anche troppo) la fortunata melodia di “Again” con “Stilness of heart” mentre in “Believe in me” si cimenta in un hip hop griffato e raffinato di colori spagnoleggianti; diventa ironico in “Pay to play” sull’amore a pagamento e si concede una riflessione sulla propria condizione di artista/star in “A million miles away”. Nel frattempo è già pronta la sceneggiatura per un film ispirato alla sua vita e alla sua carriera. Poca fatica, poca voglia di sorprendere. Insomma, di sostanzialmente nuovo non c’è proprio niente. Forse - a 12 anni di distanza dal suo debutto - si può dire che sia proprio questo il segreto di un così grande successo: puro e semplice rock’n’roll.

SUZANNE VEGA: “SONGS IN RED AND GRAY”


Coinvolta in molteplici attività che vanno dalla scrittura di poesie, il lavoro insieme ad organizzazioni umanitarie come Amnesty international o la Casa Alianza e i lunghi tour acustici chitarra e voce, la cantautrice americana pubblica un disco che la riporta in parte alle ballate introspettive di inizio carriera, che la resero celebre nel 1985 con l’album omonimo d’esordio – che conteneva la celebre “Marlene’s on the wall” – e a ancora più due anni dopo con “Solitude standing”, suo più grande successo di sempre con la celeberrima “Luka”, dal testo duro e lacerante che raccontava un abuso infantile. Diventava così una beniamina del pubblico sia in patria che nel vecchio continente, e per una curiosa combinazione, lei da sempre regina della poesia acustica, si scoprì anche ‘diva da discoteca’ quando “Tom’s diner”, brano nell’origine a cappella, diventò anni dopo un rutilante hit sulle piste da ballo e nelle classifiche di vendita grazie a un remix furbetto opera dei DNA. Poche artiste possono vantare quanto lei una veloce consacrazione nell’olimpo dei grandi, a dispetto di produzioni successive che – seppur mantenendo un standard qualitativo omogeneo – non avrebbero più interessato altri se non un più che resistente zoccolo duro di fan. Questione di cicli e mode più che di reali cali di ispirazione, che hanno determinato le repentine ascese e altrettanto rapide cadute di colleghe di talento come Tracy Chapman o l’ingiustamente dimenticata Julia Fordham. La nuova raccolta non si discosta particolarmente dai precedenti lavori, anche se la vita personale entra questa volta nelle tredici canzoni in maniera più preponderante. La causa è la separazione avvenuta tre anni or sono dal marito e produttore Mitchel Froom, che hanno lasciato in lei una sensazione di riacquisita libertà: “Mi sento libera di andare ovunque” ha affermato di recente in un’intervista, “quando canto e suono accompagnata solo dalla mia chitarra elettrica. Non potevo farlo quando dipendevo da una produzione troppo ricercata. Può sembrare una piccola cosa, ma per me non è così”. Quasi leggendo nel pensiero della ragazza del Village, Rupert Hine - che la produce ora - sceglie la strada della leggerezza: rivestendo le canzoni di arrangiamenti sofisticati e moderni ma mai troppo invadenti, e coinvolgendo in un discreta elaborazione delle parti ritmiche Nick Pugh, in passato collaboratore con Tricky e i Massive Attack. Sempre ispirato nelle liriche, è un po’ prevedibile nelle musiche anche se qua e là – l’iniziale “Machine ballerina” e “(I’ll never be) your Maggie May” – colpiscono nel segno. Alla fine, di queste ‘canzoni in rosso e grigio’ resta una sensazione di estrema fragilità: quasi fosse un album di transizione in bilico fra un passato invadente e un futuro dai contorni ancora poco definiti.